Edizione 2011 – Per molti il nome di Maurizio Galimberti, fotografo italiano, classe 1956, è legato alla pellicola a sviluppo istantaneo e alla tecnica del foto-mosaico, da lui creata ispirandosi all’arte futurista e cubista. Ma è il Mediterraneo ora al centro dell’attenzione dell’artista brianzolo, protagonista dal 9 luglio al 4 settembre, alla Certosa di San Giacomo di una mostra promossa dalla Fondazione Capri e curata da Denis Curti.
Un fotografo speciale. Maurizio Galimberti non si limita a carpire la realtà che lo circonda ma utilizza il mezzo fotografico per suscitare emozioni, come farebbe un pittore. E lo fa con una macchina insolita nell’era digitale: la Polaroid. Da qui nascono immagini che fluttuano nel tempo senza una precisa collocazione. La Fondazione Capri le raccoglie in “Mediterraneo. Un’antologia per immagini. Fotografie di Herbert List e Maurizio Galimberti”. L’esposizione curata da Denis Curti che dal 9 luglio al 4 settembre anima gli spazi della Certosa di San Giacomo.
Galimberti, la mostra la coinvolge direttamente e affianca il suo nome a quello di un altro importante fotografo, Herbert List. Che effetto le fa questo accostamento?
List è indubbiamente un mostro sacro della fotografia. Essere affiancato a lui mi imbarazza ma al tempo mi lusinga ed accresce la mia autostima. Nella fotografia siamo diversi: lui è un “bianconerista” ed appartiene ad un’altra generazione ma siamo poli opposti che si attraggono. Inoltre a Capri ho testato le pellicole “Impossible” e sono nate foto che sembrano dagherrotipi. Intendo dire che sono atemporali: potrebbero essere state scattate ai tempi di List, ma anche prima o dopo.
Ha sempre avuto un rapporto particolare, si potrebbe definire un non-rapporto, con la fotografia digitale. Se le dico Polaroid cosa risponde? La Polaroid ha una magia e un’immediatezza che il digitale non ha. L’istantaneità e la manipolabilità danno come risultato fotografie assimilabili a pitture. È come se, di fronte ad una domanda, il digitale offrisse una risposta chiara, mentre la Polaroid lascia dei puntini di sospensione. Oltre il punto interrogativo c’è un mondo dato dall’imperfezione del mezzo e lì ognuno può emozionarsi scoprendo il suo universo.
Cosa ha carpito il suo sguardo dell’isola di Capri? Cosa vale la pena raccontare di questo luogo?
Di Capri mi colpisce la magia dei suoi luoghi. Se, camminando tra la folla punti la macchina fotografica due metri sopra il suolo e scatti un’istantanea, questa ti restituisce immediatamente lo stesso incanto. E poi è impossibile non lasciarsi conquistare dalla carica dei capresi: la loro vitalità aveva affascinato anche List.
La Fondazione Capri le ha chiesto di immortalare l’isola in tre diversi momenti dell’anno: inverno, primavera, estate. Cosa cambia nello scenario caprese con l’alternarsi delle stagioni?
Capri è sempre indimenticabile, sia che la percorri in pantaloni e camicia di lino, sia che la attraversi avvolto da sciarpa e cappotto. Ovviamente i suoi scenari cambiano al variare della luce: a seconda della sua presenza-assenza i luoghi assumono un fascino diverso. La luce, come la neve, è l’elemento esterno capace di alterare la percezione di un paesaggio.
Ha avuto una carriera incredibile, è un personaggio stimato nel settore, è riuscito a fare di una passione la sua professione. C’è qualcosa che sente di non aver ancora raggiunto?
Sento di non aver realizzato pienamente la sintesi. Attraverso la lirica del mosaico ho cercato di raggiungere un’immagine meno estetica e più emozionante. La tecnica richiede però molteplici fotografie. Ecco, per me la sintesi consiste nel riprodurre lo stesso effetto, il medesimo mosaico, con una sola Polaroid: una missione quasi impossibile. A livello di fisicità, sebbene negli anni ho realizzato ritratti di personaggi illustri e spesso carismatici (da Johnny Depp a Toni Servillo, da Sofia Coppola al Cardinale Angelo Scola, ndr.), ci sono ancora due soggetti che sento il desiderio di immortalare: mia madre e il Papa. Il primo è molto personale e credo di non poterlo realizzare vista la sua veneranda età. Il secondo è un sogno che avevo quasi raggiunto durante il pontificato di Giovanni Paolo II. Purtroppo le condizioni di salute di Wojtyla andavano peggiorando e non se ne è fatto più nulla. Ma non demordo e proverò ancora.
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