12 luglio 2011 – «Mediterraneo, un’antologia per immagini», la bella mostra fotografica inaugurata sabato sera alla Certosa di Capri, vive del fecondo confronto tra due sguardi d’autore molto diversi.
Il primo – in bianco e nero, risalente agli anni Trenta del Novecento, giocato nella gloria della luce che racconta e nelle ombre che alludono – è quello di un classico come Herbert List (1903-1975), il gran tedesco campione della «fotografia metafisica» che proprio nel Mediterraneo, e specialmente in Grecia, trovò il mondo più consono alla propria ispirazione.
Il secondo – che è in parte a colori, e in parte in un bianco/nero che cerca l’elusività di un ‘Seppiato capace, come dire?, di liberare le immagini dalla tirannia del presente proiettandole in una dimensione tra il mitico e l’onirico – è quello di un artista di oggi, il com’asco Maurizio Galimberti (nato nel 1956), che si è guadagnato fama internazionale soprattutto grazie alla tecnica post-futurista di scomporre le proprie immagini proponendo ne, con fine ironia, una lettura «narrativa» che prolunga l’attimo fotografico nel senso di una obliqua durata.
Sarebbe difficile immaginare due mondi più lontani; eppure, nei suggestivi ambienti del «quarto del priore» nel complesso della Certosa di San Giacomo, dove altre immagini, quelle della prepotente natura caprese, entrano dai finestroni e si mischiano con incantevole effetto a quelle della mostra, si costruisce così un percorso di grande effetto. Da List, cioè da un passato di bellezza «assoluta» (e tra l’altro così piena di glamour da prefigurare quasi le .più recenti rivisitazioni di Capri in chiave pubblicitaria), si avanza verso la frammentazione dei «mosaici» di Maurizio Galimberti, accompagnati da titoli divertenti e vitali (vedi, per dire, «Catello&KalimbaOmbrosoDancing», un racconto giocato sulla presenza ricorrente di un taxi rosso, uno dei più aristocratici superstiti della tradizione caprese degli autisti di piazza), per approdare infine alla serie dei bianco/neri dello stesso Galimberti, realizzati nell’inverno scorso a Capri su pellicola Polaroid cercando, come scrive il curatore della mostra Denis Curti, «il senso della memoria e della solennità del passato», e istituendo così il nesso conclusivo della proposta, e cioè il ritorno a quella chiave «metafisica», che tiene insieme la storia e il sogno, e lavora per un’astrazione rispetto al presente, e che in definitiva ci riporta a Herbert List.
Del quale, comunque, la rassegna promossa dalla Fondazione Capri per la terza edizione del suo Festival della Fotografia presenta una cinquantina d’immagini assolutamente strepitose. Sia che l’obiettivo si posi sulle vitree o liquide trasparenze di bottiglie, vasi e bocce appoggiate su tavoli di trattoria o banchi di acquafrescai tra ‘Capri e le isole del mar Egeo (e in questi casi la purezza di List potrebbe pretendere di essere apparentata a quella di Giorgio Morandi, sia pure con un surplus vitalistico che redime dalla «morte» questi still-life); sia che protagonisti del racconto fotografico diventino i corpi, scolpiti dalla luce, di uomini e donne ormai già ben dentro la modernità del rito profano della villeggiatura (come nel bellissimo, muto ma teso e sottilmente conturbante dialogo di «Flirt», una foto del 1935 scattata a Capri); sia infine che la macchina scelga di inquadrare la bellezza perenne del paesaggio isolano e di «rinnovarla» attraverso la originalità di un taglio particolare, di un’inquadratura inattesa; in tutti questi casi, insomma, le immagini di Herbert List appaiono come un tributo veramente memorabile al mito di Capri.
E il segnale di una rigorosa coerenza che nella sua breve esistenza il Festival caprese sembra aver già conseguito, dopo le tappe dedicate a un precursore come Wilhelm von Gloeden (2009) e a un riconosciuto maestro dei nostri giorni come Mimmo Jodice (2010).
Francesco Durante
Scarica il PDF dell’articolo (516 Kb)